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DANTE E I DISPATRIATI
Sublimazione di un destino

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  Capitolo 5.     Il tema profetico dell’esilio   

Similarità assunta con i profeti

Vi sono elementi di affinità tra Dante, con la sua grande capacità di interpretazione poetica e teologica dei fatti e degli uomini, soprattutto uomini di potere, e lo stile con il quale i profeti di Israele (e non solo Abramo e Mosè) vivevano la loro esistenza grama e invisa alla maggior parte dei sovrani, dei sacerdoti e del popolo del loro tempo.
Profeta ha il significato di qualcuno che, dotato di carisma speciale, “parla o rivela in anticipo” 1.
Anche Dante, condividendo in gran parte la vita dura, errabonda ed estraniata dei profeti di tutti i tempi, condivide la capacità e il carisma di uno che “vede in anticipo”, che vede “lontano” e ha un pensiero lungimirante, non soffocato da interessi immediati e spesso sordidi, gretti, miopi, di coloro che sono concentrati nel loro “particulare2.
Le figure profetiche più emblematiche sul tema della persecuzione, emarginazione e della privazione della patria più affini a Dante sono certamente i grandi profeti dell’esilio: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Osea, Amos e Baruch.
Essi o furono deportati ed esiliati come Ezechiele e Daniele, oppure furono in prima linea nel prevenire (con preveggenza appunto profetica) Israele dalla catastrofe dell’ occupazione da parte delle potenze vicine degli Assiri e dei Babilonesi e delle successive deportazioni: disgrazie quasi sempre dovute, secondo i profeti, alle scelte scellerate della maggior parte dei loro re, che, salvo rare eccezioni, governavano in modo non conforme al volere di Dio e piegandosi a idolatrie di ogni sorta, che indebolivano o addirittura minavano alla radice il senso di identità della nazione e la capacità di tutelare e difendere i valori che li distinguevano dagli altri popoli. In questo caso, i profeti, pur non essendo essi stessi vittime di un esilio, cercavano di richiamare il popolo e i suoi sovrani alla fede in Dio e di sostenere la loro mancanza di fiducia e di coraggio in una situazione critica e dolorosa.
Ma spesso, per questa loro azione, non erano ben visti nella loro patria e vivevano raminghi, esuli e dispatriati, come nel caso di Elia e di Geremia.
Vi è una profonda similarità assunta tra Dante e la sua esperienza dell’esilio e una parte importante dei profeti dell’antico Israele 3: non è esagerato attribuire a Dante stesso uno status autentico di profeta (“nessuno è profeta in patria”, dirà poi Gesù), emarginato per la sua coraggiosa lotta per la verità e l’ autenticità morale della politica, e, allo stesso tempo, capace di sublimare la sofferenza e le sue lamentazioni (come in Geremia) attraverso una potente elaborazione simbolica, con riferimenti precisi a fatti accaduti, come in Elia e in Geremia, e in prospettiva di accadere nel futuro, come in Ezechiele.

 

Dante e la sua fede

Il suo processo di sublimazione della esperienza esistenziale dell’esilio dipende certamente dal fatto che egli possiede una fede in Dio molto alta, molto nobile, molto forte, non del tutto scalfita, anche se ferita e offesa, dalle sue visioni amare sulla chiesa reale, sugli stessi papi, su un clero incline da sempre a mettere all’asta il sostegno dell’apparato ecclesiastico e del suo gregge più obbediente e ingenuo a favore dei potenti di turno, o a ottenere denaro (come nel caso della simonia e delle indulgenze a pagamento), o a partecipare alla spartizione delle prebende e dei feudi, che in certe nazioni arrivavano a coprire intere contee e persino intere nazioni 4.
Dante vede nella chiesa il pericolo immanente di una interferenza continua negli affari della politica laica, nel suscitare fazioni con lo scopo specifico di bloccare processi di formazione degli stati che potevano creare svantaggi territoriali ed economici per i prelati, gli abati di immense e ricchissime abbazie, i papi, i cardinali, molti dei quali veri e propri sovrani e feudatari.

 

I cristiani erano governati male

Come nei profeti antichi, anche per Dante il popolo cristiano era governato male e in modi molto distanti dall’autenticità della fede.
Anche Israele ha vissuto, con i profeti, questa continua tensione contro la riduzione della fede e del culto e strumento di potere, soprattutto dopo il breve periodo dei Giudici, che caratterizzò la storia del popolo ebraico subito dopo la lunga prova dell’esodo: quel periodo straordinario nel quale la politica era a servizio delle fede e non il contrario, soprattutto nel caso di Deborah, profetessa anch’essa e straordinaria governatrice di quel piccolo stato federale che era Israele prima della monarchia.
E fu la conclusione di quel periodo breve, ma irripetibile, che trasformò il popolo ebraico da popolo liberato e libero in popolo sottomesso e servile: paradossalmente fu Samuele, membro della casta sacerdotale e contrario, in linea di principio, alla monarchia, a inaugurare il sistema monarchico con Saul.
Egli mise in guardia gli ebrei del suo tempo, prevedendo, da buon profeta, le conseguenze negative della istituzione monarchica (ampiamente verificate nei secoli successivi fino alla estinzione della monarchia dopo l’esilio babilonese).
Ma dovette piegarsi alla richiesta di un re da parte del popolo 5.
Si concluse così il ciclo dell’autogoverno delle dodici tribù o cantoni autonomi e federati attorno ad un governatore eletto da loro e scelto ora da una ora dall’altra delle dodici tribù.

 

Leadership condivisa e empatia

Paradossalmente, al tempo dei Giudici o dei governatori eletti, il popolo ebraico ebbe molte vittorie sui popoli che lo volevano occupare e sottomettere, alcune addirittura clamorose, come quella di Deborah sui Cananei, guidati da Sisara e dal loro re Jabin.
Con uno stratagemma, simile a quello degli inglesi nella battaglia di Azincourt, gli ebrei, guidati da Deborah in persona 6, ottenne una clamorosa vittoria, nonostante che i Cananei avessero a disposizione i carri armati e molti più soldati, mentre Deborah aveva al suo fianco truppe esigue e leggiere, fornite dalla piccole tribù di Neftali e Zabulon: nel suo canto, che è un capolavoro profetico e poetico, Deborah rivela, come Maria nel Magnificat, che anche i deboli, se convinti della loro fede e della loro responsabilità, se coinvolti e motivati, come ha fatto lei con la sua grande empatia e intelligenza emotiva straordinaria, possono vincere su eserciti più potenti:

Ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili”
(Luca I 52)

E infatti nel suo canto Deborah ringrazia le due piccole tribù: cosa che pochi generali o capi di eserciti e di governo si ricordano di fare, attribuendo invece solo a sé stessi la gloria dei trionfi.
Se un piccolo esercito male equipaggiato di due tribù minori, furono capaci di respingere l’occupazione dei Cananei, dotati di panzer, perché motivati da un leader eletto, proveniente anch’esso da un piccolo partito (il partito di Efraim), allora comprendiamo la ragione per la quale con i re gli ebrei hanno quasi sempre perso le battaglie e le invasioni.
Le tribù, non partecipando più alla elezione del loro leader su motivazioni di merito e di fede, non si sentivano più coinvolte in prima persona. Inoltre, come accade spesso nella psicologia delle masse popolari, pensavano e credevano che un uomo solo al comando potesse risolvere tutti i loro problemi e diventare invincibile, solo perché faceva loro credere di esserlo.

 

I due regni del popolo ebraico e le fazioni del popolo cristiano

Sembra di rileggere la storia che Dante vive sulla sua pelle: non solo guelfi e ghibellini, ma addirittura una stessa “tribù”, i guelfi, si divide in bianchi e neri e ogni divisione indebolisce le città-stato o le repubbliche comunali e non fa che favorire l’avvento di potentati interni od esterni.
La sua evocazione di Arrigo rievoca, come in una specie di coazione a ripetere, l’avvento di Ciro prefigurato dal profeta Daniele: principe che finalmente restituisce la libertà ai Giudei in esilio e li induce, al loro ritorno, non solo a ricostruire il tempio come simbolo unificante, ma ad elaborare una nuova costituzione radicata in una fede più profonda e sincera nel solo e unico Dio, attraverso l’azione di leader come Neemia e Esdra, che furono autori di una nuova legislazione.
Tale legislazione, tra le molte deliberazioni, stabiliva la lettura trisettimanale della Torah, proprio per far crescere la coscienza della propria identità.
Il "partito di Yhwh-solo" proponeva il ritorno alla religione pre-esilica, con quello spirito innovatore che aveva caratterizzato la fede al tempo di Mosè, che aveva liberato gli ebrei dall’esilio oppressivo dell’Egitto e aveva contrastato durante l’Esodo le tendenze lassiste e sincretiste simboleggiate nella adorazione del vitello d’oro, favorita paradossalmente dal sommo pontefice di quel momento, ossia Aronne 7.

 

Pensiero politico di Dante: la teoria dei due soli

Grazie all’esempio di Ciro il grande e all’impegno per una fede più pura conseguente all’esilio babilonese, Dante, con una intuizione straordinariamente moderna, abbraccia una opzione politica analoga, con Arrigo al posto di Ciro e lui stesso al posto di Esdra e Neemia, con la teoria dei due soli, che prevede la “separazione” tra religione e stato, tra potere temporale e potere religioso, e soprattutto propugnando una chiesa più lontana da obiettivi di potere “mondano” e attenta ad una fede più pura. Ed espone questa teoria nel Canto XVI del Purgatorio, attraverso le parole di Marco Lombardo (lo stesso che evoca Gherardo da Treviso):

Soleva Roma che ‘l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo”
(Purgatorio XVI 106-108)

e nel Canto VI del Paradiso, nel dialogo con Giustiniano, che contesta le posizioni sia dei Guelfi che dei Ghibellini, perché avevano del potere laico e del potere religioso una opinione opposta, ma egualmente sbagliata e fondamentalista: Dante, con questa posizione molto moderna, dimostra una grande preveggenza, anticipando di ben 4 secoli il pensiero dell’Illuminismo, e un grande coraggio.
E non sono mancate le reazioni da parte della chiesa ufficiale, tipica per tutti i “profeti” antichi e moderni: pochi anni dopo la morte di Dante, nel 1329, il libro De Monarchia fu bruciato per ordine del Cardinale Bertrando del Poggetto: gesto tipico che anche in tempi recenti si è avverato con i roghi nazisti.
E questa accanita persecuzione la troviamo praticamente in tutti i grandi profeti.

 

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1Prófhmi (dire prima, in anticipo sui fatti) oppure Profainw (far apparire prima, mostrare una scena in anticipo),soprattutto per Ezechiele, il profeta “sceneggiatore”: oggi si direbbe che invece di parlare comunicava le sue profezie su youtube, al punto che uno scrittore ebreo di grande prestigio culturale come Jacques Attali scrive, nel suo commento su Ezechiele nel Dictionnaire amoureux du Judaisme (Fayard 2009,traduzione italiana in Fazi Editore, 2013):”Chi non ha mai letto ad alta voce la visione della resurrezione che apre la profezia di Ezechiele non può sapere veramente che cosa sia la grande letteratura”.

2Francesco Guicciardini; Ricordi,28: “Io non so a chi dispiaccia piú che a me la ambizione, la avarizia e le mollizie de' preti; sí perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sí perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dipendente da Dio; e ancora perché sono vizi sí contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con piú pontefici, m'ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autoritá”.

3Un grande scrittore e politico come Nicolò Tommaseo considerava Dante sia come profeta che come poeta: il «poeta sommo, l’uomo che...dopo i profeti, fu innanzi a tutti poeta») in Memorie poetiche, Opere, a cura di M. Puppo, Firenze, Sansoni, 1968, p. 364.

4 Forse l’amarezza e il disgusto di Dante, se avesse potuto veramente cambiare lo stile della Chiesa, non avremmo avuto né lo scisma di Valdo, né quello dei Catari, né quello di Lutero e probabilmente neppure quello di Enrico VIII, che, insieme alle motivazioni ben note, ne aveva una di cui pochi parlano e che forse era la più determinante nel concludere il distacco da Roma e fu quando il suo furbo e perfido cancelliere Thomas Cromwell, che sostituì Thomas Moore, gli prospettò l’idea che la somma delle ricchezze e dei possedimenti dei monasteri e delle chiese d’Inghilterra era superiore a quella dello stesso stato, con un cardinale, Wolsey, legato del papa nel regno oltre che pure lui cancelliere prima di Thomas Moore, che era l’uomo più ricco d’Inghilterra, più dello stesso re. Alla luce di questi e altri dettagli storici, Dante appare come un grande profeta a favore di una chiesa meno interessata al potere e al dominio (come lo fu il papa da lui messo all’Inferno come Bonifacio VIII) e più coerente con il Vangelo.

5Che non finisce mai di stupirci per la inclinazione delle masse, di tutti i tempi, antichi e moderni, a sentire il bisogno di un “re”, di un “signore” , nel passato, oppure di un “duce” o di un Führer, in tempi più moderni e ancora attuali , che dia loro l’illusione della sicurezza e della protezione, incapaci di elaborare anche le forme più elementari di frustrazione e di angoscia, dovuta a motivazioni vere o presunte: mentre scrivo, sto pensando a quanti “autentici” leader autoritari e purtroppo negativi abbiamo nei tempi attuali. Vale la pena di rileggere Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’io, Le Bon, in Psicologia delle folle, Erich Fromm, in Fuga dalla libertà, Wilhelm Reich, in Psicologia del fascismo. Un altro testo prezioso è quello di Elias Canetti, in Massa e potere, che ha una visione un po’ meno drastica sulla psicologia delle masse: anche se raramente, la metamorfosi degli individui in “massa” compatta può dare anche qualche esito positivo, come nelle rivoluzioni.

6Che non stava quindi sulle retrovie a bere flûtes di champagne come i nostri generali della Prima guerra mondiale, mentre mandavano al massacro i poveri fanti con attacchi insensati e perdenti.

7Questo culto era comune in molte culture, soprattutto come culto spermatico della fecondità. In Egitto, da dove provenivano tutti gli habiru guidati da Mosè, il Toro Apis era un eminente oggetto di culto: nel rivivere questa credenza egizia, la fazione ebraica filo-politeista voleva riprodurre questo culto, con un processo di assimilazione con la religione del popolo dal quale erano appena stati liberati. Anche tra tutti i popoli limitrofi degli egiziani ed ebrei nell'antico Vicino Oriente e i popoli attorno al mare Egeo (in particolare la civiltà cretese o minoica), il toro selvatico veniva ampiamente adorato, spesso come Toro Lunare e creatura propria di El, dio del pantheon dell’area semitica siro-palestinese e mesopotamica, spesso presentato con caratteristiche di dio supremo.

 

 

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