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In principio era il caos

di Cristina Sborgi


Roma, Europa Edizioni, 2021
 

«Itinerarium mentis in naturam»: potremmo definire così, mutuando l’espressione e parafrasandola da San Bonaventura («Itinerarium mentis in Deum») - ma volendo un’altra parafrasi con preciso cambio di segno è nel titolo stesso, dove il Caos sostituisce il Verbo (Logos) dell'incipit del Vangelo giovanneo - la produzione di senso del romanzo di Cristina Sborgi, laureata in lettere, giornalista pubblicista, già autrice di due romanzi prima di questo (Il venditore di tempo e L'identità rubata, Edizioni Guffi, Roma), dapprima addetta alla Presidenza del Consiglio e a Canale 5, ora residente a Merano e attiva nell'ufficio stampa della sede locale del CAI, ma in primis fiorentina, come si vede chiaramente, tra l’altro, dall’uso del verbo spengere (correttissimo, attenzione, nonostante qualche lamentela di qualche iper-purista, evidentemente dimentico del ruolo determinante per la lingua italiana dei grandi scrittori toscani), come anche in genere dalla correttezza grammaticale e sintattica, che sembra essere invece ormai quasi un “optional” per molti autori.

Ductus perfetto, dove crescendo e decrescendo si alternano con intelligenza, sempre seguendo la vicenda umana della giovane protagonista, che da Firenze va a Roma, poi a Milano e poi in montagna, forse in Val Passiria o Venosta, immergendosi nella vita rurale, studiando il tedesco e la cultura sudtirolese. Da rimproverare alla Sborgi solo una piccolissima caduta retorica nell'Epilogo (l'immagine, non la metafora, del «treno che si chiama destino» è abusata al limite dell'insopportabile e ricorda, ma decisamente in senso peggiorativo, A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiara desiderio, capolavoro teatrale anche ben trasposto al cinema di Tennessee Williams), ma in complesso anche il citato rétour è la nature viene proposto senza alcuna forzatura e senza infingimenti di sorta, quale esperienza reale di una persona, di genere femminile, colta quanto disponibile anche al lavoro manuale e alle fatiche delle camminate in montagna, che nel suo “Lebensweg” - itinerarium vitae incontra e si scontra con vari aspetti di ciò che spesso impropriamente chiamiamo “realtà”.

Concludendo, se qualche drammaturgo o sceneggiatore o regista volesse trasporre quest’opera letteraria in una pièce teatrale o in un film, il consiglio eventuale da dare (sempre con tutte le riserve nei confronti dei “consigli”, beninteso) sarebbe certamente quello di virare personaggi e plot in senso surrealistico o altrimenti espressionistico, dato che oggi una “psicologia dei personaggi” non è più possibile, se intendiamo una compiuta caratterizzazione dei personaggi stessi.

Le nostre conoscenze più raffinate in campo psicologico e la nostra concezione anche epistemologicamente fondata del “reale” non consente più di creare “personaggi a tutto tondo” che si muovono in una realtà caratterizzata come tale unitariamente. Il testo in questione, del resto, sembra proprio tener conto di questa impossibilità, facendola propria a livello di trasposizione nella scrittura.

 

                      di Eugen Galasso

 

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