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La vita gaia di Dina Galli

di Lucio Ridenti

a cura di Leonardo Mancini
Bari, edizioni si pagina, 2023, pp. 172

 

Lucio Ridenti è una figura poco nota eppure di una grande importanza per il teatro italiano: fu prima attore “generico” assieme a Memo Benassi nella compagnia diretta da Ermete Novelli, poi si qualificò come “brillante” soprattutto nella compagna Galli-Guasti-Bracci nel periodo 1917-1924; nel 1924 si distinse come attore comico con Alda Borelli e nel 1925 entrò nella compagnia di Tatiana Pavlova; nello stesso anno un grave problema all’udito gli compromise la carriera, perciò trasferì i suoi interessi in ambito giornalistico – come redattore della “Gazzetta del popolo” di Torino e in qualità di fondatore della prestigiosa rivista “Il dramma” diretta fino al 1968 –, e nella veste di autore di numerosi libri di studi teatrali e memorie.

Tra questi spicca La vita gaia di Dina Galli scritto nel 1928 e ora ripubblicato dalla barese edizioni di pagina a cura di Leonardo Mancini che lo definisce un «un racconto storiografico a tratti ironico, affettuoso e familiare» dedicato ad un’attrice, come detto, con la quale lo stesso Ridenti aveva recitato per molte stagioni e alla quale attribuisce l’etichetta de «la più grande comica del creato». L’eccesso di enfasi, oltre che dalla grande stima professionale, deriva dall’attaccamento quasi celebrativo a un sistema teatrale in netto declino, ovvero il tramonto di quel capocomicato del quale la Galli può essere considerata una delle ultime e gloriose esponenti.

Tra aneddoti, cronaca e curiosità, Ridenti sottolinea le innovazioni stilistiche ed estetiche introdotte nel teatro italiano dalla Galli, come l’abbandono del lusso dei costumi a favore della sobrietà introdotto recitando commedie di pochade francesi che si basavano proprio sullo sfarzo dei costumi di scena.
Disprezzata da Silvio d’Amico, Marco Praga, Piero Gobetti e molto elogiata da Antonio Gramsci, inizialmente recita in dialetto milanese fino a quando è scritturata dalla famosa compagnia Talli-Gramatica-Ridenti. Si tratta di un significativo cambiamento di rotta: «il teatro dialettale – commenta Ridenti – perdeva un’attrice appena formata; quello italiano guadagnava la più grande attrice comica» che rimaneva una donna timida «come se non avesse mai recitato» anche perché l’italiano non lo parlava ancora in modo corretto.

Tuttavia questa attrice magra, dal viso appuntito e dagli occhi sporgenti, giganteggiò recitando Labiche e Feydeau: La dame de chez Maxim rivelò tutto il suo talento che poi trovò nell’interpretazione di Scampolo di Dario Niccodemi la sua definitiva consacrazione, suggellata anche dal giudizio di una spettatrice d’eccezione, Eleonora Duse che definì la resa scenica della modella popolana semplicemente «sublime». Seguono altri grandi successi, prima con le commedie di Giovacchino Forzano (Le campane di S. Lucio e Madonna Oretta) poi grazie a Biraghin di Arnaldo Fraccaroli.

Allo scoppio della Grande guerra, accompagnato da un «delirio di entusiasmo», l’attrice milanese «diventa silenziosa, indifferente a tutte le esteriorità», cancella dal suo repertorio le commedie «scapigliate» e recupera i vecchi vaudevilles, «che facevano soltanto garbatamene sorridere». Non solo: visita i soldati feriti negli ospedali e li intrattiene con il teatrino dei burattini: al fronte recita Scampolo e La maestrina di Niccodemi.
Intanto la sua compagnia teatrale si disperde e la Galli sembra allontanarsi dal mondo dello spettacolo. Forzano la scuote dal suo «apparente torpore» coinvolgendola, nel 1926, come protagonista di Ginevra degli Almieri e restituendole, in questo modo, carica ed entusiasmo tali da spingerla a fondare due anni dopo la compagnia Dina Galli.

Il racconto di Ridenti si ferma a questo punto mentre la vita artistica dell’attrice proseguì con pregevoli esperienze cinematografiche, vicino all’attività teatrale condivisa con interpreti del calibro di Nino Besozzi, Evi Maltagliati, Antonio Gandusio.
Con la sua scomparsa nel 1951 declina un teatro leggero e disimpegnato affrontato dalla Galli con quella «stralunata comicità» (l’espressione è di Renato Simon) che le garantì di stazionare nei quartieri alti della scena italiana dei primi cinquant’anni del Novecento.
 

                                       di Massimo Bertoldi

 

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